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Prova costume e immagine corporea: quando il corpo diventa un nemico

Ogni anno, con l’avvicinarsi dell’estate, sento affiorare nelle parole delle persone che incontro in studio un disagio sottile ma profondo. Non riguarda solo il corpo in sé, ma il modo in cui lo si guarda, lo si giudica, lo si confronta con un ideale che sembra irraggiungibile.

La cosiddetta “prova costume” non è solo una frase leggera da rotocalco. Per molte persone — soprattutto per chi ha una relazione complessa con il proprio corpo — è una vera e propria miccia che riaccende pensieri di inadeguatezza, vergogna, senso di colpa.

In questo periodo ricevo spesso domande come:

Perché non riesco a guardarmi allo specchio?
Come faccio a non sentirmi a disagio in costume?
È normale che l’estate mi faccia sentire più vulnerabile?

Questo articolo nasce proprio per rispondere a queste domande, per offrire uno spazio di comprensione e — se riconosci qualcosa di te tra queste righe — anche uno spunto per iniziare a cambiare prospettiva.

Il legame tra corpo e identità

Nel mio lavoro quotidiano mi capita spesso di vedere come l’immagine corporea non sia solo una questione estetica, ma qualcosa di molto più profondo. Il corpo è uno specchio dell’identità, un ponte tra ciò che sentiamo di essere e come ci percepiamo attraverso lo sguardo degli altri.

Quando una persona si guarda allo specchio e prova disagio, vergogna o rifiuto, non si sta giudicando solo per qualche chilo in più o per un dettaglio fisico. Sta spesso misurando il proprio valore attraverso un modello esterno, rigido, irrealistico, ma interiorizzato nel tempo.

Questo accade, ad esempio, nei percorsi con pazienti che hanno vissuto episodi di bullismo, commenti svalutanti in adolescenza o esperienze in cui il corpo è stato giudicato, ridicolizzato o controllato. Col tempo, quei giudizi diventano voci interiori che ci seguono ovunque.

L’identità personale, in questi casi, si costruisce su una base fragile, condizionata dall’approvazione esterna, con una costante sensazione di essere “sbagliati”.

Riconoscere questo legame è il primo passo per riappropriarsi di uno sguardo più gentile verso sé stessi, e cominciare a distinguere ciò che si è da ciò che si crede di dover essere.

Il pensiero ossessivo del controllo

Quando il corpo diventa il nemico da domare, la mente comincia a lavorare senza sosta. Una delle dinamiche più comuni che osservo in chi vive un rapporto difficile con il proprio aspetto è la necessità di avere tutto sotto controllo: l’alimentazione, il peso, l’allenamento, il gonfiore, lo specchio, le fotografie, lo sguardo degli altri.

Tutto viene monitorato, analizzato, confrontato. Ma più si cerca di controllare, più si alimenta un’ansia profonda. Ogni scivolone, ogni imperfezione percepita, ogni “sgarro” diventa una colpa da pagare. E così, la mente si incastra in pensieri ricorrenti e totalizzanti: “Cosa ho mangiato oggi?”, “Mi vedranno gonfia?”, “Devo saltare la cena per compensare”.

Quello che all’inizio sembra solo un impegno per “sentirsi meglio” si trasforma in una prigione mentale, dove il valore personale dipende solo da ciò che si riesce (o non si riesce) a controllare.

In terapia, accompagno spesso le persone a riconoscere questo meccanismo: non per eliminarlo con la forza, ma per interrompere gradualmente la spirale che lo tiene in piedi. Perché il controllo assoluto, paradossalmente, è proprio ciò che fa perdere l’equilibrio.

I DCA e l’estate: un’accelerazione del disagio

L’estate, con le sue giornate luminose e i corpi più esposti, può rappresentare un periodo particolarmente difficile per chi ha un Disturbo del Comportamento Alimentare. Non è solo una questione di estetica o abbigliamento: ciò che cambia è il modo in cui ci si percepisce e ci si sente esposti agli occhi degli altri.

Nei mesi estivi, il confronto con gli altri corpi diventa più frequente e immediato. E per chi già convive con l’ossessione del peso o del cibo, ogni dettaglio può riattivare pensieri e comportamenti disfunzionali. Lo vedo spesso in chi soffre di:

  • Anoressia, dove il controllo e la restrizione si intensificano per “arrivare pronta” alla prova costume;
  • Bulimia, con un alternarsi di abbuffate e sensi di colpa legati alla necessità di mostrarsi “a posto”;
  • Vomiting, dove il cibo viene usato come strumento di compensazione emotiva e il corpo come campo di battaglia;
  • Binge eating, in cui il senso di fallimento e vergogna cresce quando si deve “scoprire” il proprio corpo.

In molti casi, il cambiamento di abitudini e ritmi quotidiani tipico dell’estate destabilizza chi ha bisogno di regole e routine per sentirsi al sicuro.

E così, quello che dovrebbe essere un periodo di leggerezza diventa, invece, un’esplosione di fatica emotiva. A volte silenziosa, nascosta dietro sorrisi forzati o rinunce sociali. Altre volte evidente, attraverso comportamenti rigidi o evitanti.

Quando il corpo diventa un nemico

Nel mio lavoro incontro spesso persone che vivono il proprio corpo come qualcosa da combattere, correggere o nascondere. Non si tratta solo di non piacersi: è un rapporto di conflitto profondo, dove il corpo diventa il bersaglio di pensieri critici, controlli continui e vere e proprie punizioni.

In certi casi parliamo di dismorfofobia, ovvero la percezione distorta di uno o più difetti fisici che, agli occhi di chi li vive, diventano enormi e insopportabili. Anche quando chi sta attorno rassicura, la sensazione di “essere sbagliati” non si placa, perché nasce da dentro, non da fuori.

Questa lotta interiore si manifesta in tanti modi:

  • Evitare specchi, fotografie o situazioni in cui ci si sente esposti;
  • Confrontarsi compulsivamente con gli altri;
  • Cambiare continuamente vestiti nella speranza di sentirsi “a posto”;
  • Rinunciare a momenti di socialità per paura dello sguardo altrui.

Il corpo, da luogo da abitare, si trasforma così in qualcosa da tenere sotto controllo o da cui fuggire. E ogni tentativo di “aggiustarlo” finisce per rafforzare la sensazione di non essere mai abbastanza.

Aiutare la persona a riconoscere questo meccanismo, e a riavvicinarsi con uno sguardo meno giudicante, è spesso uno dei passaggi più delicati e liberatori del percorso terapeutico.

Come uscire da questo circolo vizioso

Quando il rapporto con il corpo diventa una prigione, uscirne può sembrare impossibile. Si alternano momenti di controllo e di sconforto, tentativi di “ripartire da lunedì” e ricadute che fanno sentire ancora più inadeguati.

Nel mio lavoro utilizzo la Terapia Breve Strategica, un approccio che non si limita ad analizzare le cause del problema, ma si concentra sul funzionamento attuale del disagio: cosa lo alimenta oggi, come si mantiene, e soprattutto quali sono le azioni e i pensieri che lo rinforzano, pur nella buona fede di volerlo risolvere.

Spesso chi soffre di un disturbo alimentare mette in atto tentate soluzioni come:

  • controllare ogni dettaglio del proprio aspetto o dell’alimentazione;
  • evitare il confronto o l’esposizione sociale;
  • cercare rassicurazioni continue o “compensare” comportamenti vissuti come errori.

Queste strategie possono dare un sollievo immediato, ma nel lungo periodo tengono in piedi il problema, e lo rinforzano.

Nel percorso che propongo, aiuto la persona a:

  • riconoscere queste dinamiche in modo concreto e non giudicante;
  • sperimentare, passo dopo passo, comportamenti alternativi, spesso controintuitivi, che portano a una nuova percezione di sé;
  • liberarsi dalla logica del controllo assoluto, per costruire un nuovo equilibrio fatto di fiducia, non di perfezione.

Non si tratta di cambiare il corpo, ma di cambiare il modo in cui lo si guarda e lo si abita. È un lavoro delicato, ma possibile. E quando la persona inizia a sperimentare piccole libertà — scegliere un vestito senza ansia, guardarsi allo specchio senza disprezzo, godersi un pasto senza sensi di colpa — spesso mi dice: “Non pensavo di potermi sentire così diversa con così poco.”

Se ti interessa approfondire il ruolo dell’immagine corporea nei disturbi alimentari, può leggere anche questo contributo della Fondazione Veronesi: Disturbi alimentari e immagine corporea.

 

Se senti che è il momento di fare pace con il tuo corpo

Se ti sei riconosciuto o riconosciuta in alcune delle situazioni descritte, sappi che non sei solo/a. Vivere con il peso di un corpo che non si sente più casa può essere doloroso, ma non è una condanna definitiva.

Ciò che oggi sembra insormontabile può diventare, con il giusto accompagnamento, un percorso di scoperta e riconciliazione. Non si tratta di “accettarsi così come si è” per forza, ma di interrompere il conflitto e dare spazio a uno sguardo nuovo. Più gentile, più libero, più tuo.

Se senti che è il momento di iniziare a prenderti cura di questa parte di te, puoi esplorare la pagina dedicata al trattamento dei disturbi alimentari oppure, se vuoi fare un primo passo concreto, contattarmi qui.

Sono qui per accompagnarti — senza giudizio — in un percorso che ti permetta di riconnetterti a te stesso attraverso un modo nuovo di stare nel tuo corpo.

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